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Gli orfani della generazione X

(lunedì 29 aprile 2024) –

“Nella sua terribile depressione e nella sua rabbia senza oggetto, (Cobain) sembra aver dato voce allo sconforto della generazione che era arrivata alla fine della storia, ogni cui mossa veniva anticipata, tracciata, comprata e venduta ancora prima che accadesse.”

Queste le parole di Mark Fisher, filosofo, sociologo, critico musicale e saggista, nel suo libro Realismo Capitalista del 2009 (edito NERO, 2018), in cui afferma che Kurt Cobain, frontman della band grunge più nota Nirvana, è divenuto il simbolo della generazione nata nel momento sbagliato della storia. 

Di Daniel Caria

L’ultimo decennio del XX secolo è stato un periodo stantio, in cui la mancanza dell’ideale collettivo del prossimo futuro ha portato la musica a crogiolarsi in sé stessa, torcendosi e buttando fuori una seconda arte che segue le orme già marcate in passato, dando vita ad una nostalgica impotenza.

La generazione cosiddetta “X” nasce nel 1965, percorrendo gli anni fino al 1980 e rimane dunque a metà del ponte che vede il boom economico del secondo dopoguerra da una sponda e l’arrivo dell’attuale millennio dall’altra. Non è facile allontanarsi dalle considerazioni di Fisher: descrivendo innumerevoli volte questa gioventù come disarmata e abbattuta. La sua frustrazione acuisce e condiziona la disillusione di quell’ultimo decennio.

Prima ancora della Swingin’ London degli anni Sessanta, tornando indietro alla metà del secolo, abbiamo il primo radicale passo verso una ricerca identitaria di sé, guidata da figure come Elvis Presley, e James Dean, dei ribelli senza una causa che non vogliono più imparare i mestieri dei padri e seguirne i consigli di vita a menadito. Per la prima volta in assoluto abbiamo esempi di ribellione socioculturale che passa dai Levi’s e bomber rosso di James Dean, ai capelli troppo lunghi e alle movenze sessuali di Elvis, che lo porteranno alla censura nelle reti televisive americane per le performance troppo esplicite e con riprese che lo inquadrano dal bacino in sù per non mostrarne i diabolici movimenti d’anca.

Questa primissima generazione post Seconda guerra mondiale, ha in mano un mondo nuovo che si porta alle spalle il grigiore della guerra, e che proprio in assenza di regole vuole e necessita di esprimere la volontà di un nuovo mondo a colori. Un mondo a colori che proiettano direttamente agli anni Sessanta e Settanta.

Negli anni Sessanta, anche e soprattutto tramite dalla musica che parte il fenomeno dei Teddy Boys, controparte britannica dei coetanei americani. Da qui, la liberazione e il raggiungimento di una società passa in pochissimi anni inevitabilmente dalle droghe psichedeliche di “Sgt Peppers and Lonely Heart Club Band” alla “Revolution” dei Beatles, passando alla “(I Can’t get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, alla “My Generation” degli Who fino alla chitarra di Jimi Hendrix di “Purple Haze”. Dall’Inghilterra partirà non solo la British Invasion ma una determinazione nell’abbattere un’Ancient regime che non rappresenta gli ideali della nuova generazione che farà di tutto per farsi sentire. I movimenti hippy degli Stati Uniti, rafforzati da questa energia che viene da oltreoceano darà vita movimenti femministi e anticolonialisti, fino a quelli sul lavoro che cambiano le carte in tavola, con il tentativo di migliorare il mondo sconfiggendo (o almeno scalfendo) il sistema classista e le sue disuguaglianze. Gli anni Ottanta si aprono quindi con un’eco di quest’epopea, in ogni sua forma. Musicalmente parlando si varia in nuovi generi che esplorano le nuove concezioni di musica sviluppatesi nei quindici anni precedenti: Synth music, metal (con tutti i suoi innumerevoli sottogeneri), black music, funk, disco, dance pop, e primi assaggi di techno e house, eppure il risultato tanto ricercato di quelle lotte ha portato ad un attuale periodo idilliaco che sfocia presto nel prosaico e nella sciatteria.

Quello che si sente nelle radio è il rabbioso hard rock di fine decennio capitanato da band come Guns’n Roses, sembra partire da un sentimento inesistente di rabbia verso il buon costume che ripete una formula vecchia di venti anni agli occhi e alle orecchie delle nuove generazioni.

In questo contesto, non c’è spazio per delle nuove visioni collettive. Come i personaggi del canadese Douglas Coupland nel romanzo “Generazione X” del 1991, (edito da Mondadori, 1992) i ragazzi hanno generalmente lavori precari di cui hanno bisogno per sottrarsi all’alienazione sociale vissuta con silenzioso rammarico e pessimismo. 

A zittire ulteriormente queste grida silenziose sono anche le differenze demografiche che li separa dalla generazione precedente: Diego Lazzarich, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Campania “L. Vanvitelli” e all’Università di Napoli “L’Orientale”, descrive in Introduzione a “80s & 90s. Per una mappa di concetti, pratiche e pensatori” questa sottile ma fondamentale differenza:

“La sola analisi demografica mostra come quella «X» sia una generazione se non proprio schiacciata, quantomeno cresciuta all’ombra dei baby boomers la quale, essendo numericamente più consistente, ha finito per imporre – grazie anche a un significativo aumento della longevità – la propria visione del mondo e la propria centralità negli assetti di potere. La generazione X, insomma, sarebbe una generazione per certi versi ‘invisibile’, priva di un’identità sociale e culturale definita e costantemente esposta al rischio di subalternità rispetto alla precedente.”

Se però è vero che la storia si ripete, da alcune di queste situazioni di malessere si sono creati aperti conflitti, come è accaduto nella stessa Seattle di Kurt Cobain nel 1999 con gli scontri per la conferenza OMC a sostegno del movimento no-global, o anche a casa nostra nel 2001, a Genova, quando i movimenti no-global hanno protestato il proprio dissenso per la Riunione del G8. Nonostante queste sostanziali eccezioni, questa generazione ha cercato di adattare la propria vita alla realtà circostante piuttosto che combattere per adattarla alle proprie necessità, come se la possibilità di un’ennesima trasformazione non fosse nemmeno concepibile.

Per molti versi, la depressione e la rabbia astratta di Kurt Cobain nascono qui, come un’assenza di vie alternative che possano definire quel periodo vacuo. TINA, come l’avrebbe definito Margaret Thatcher in altre circostanze: There is no alternative. (Non ci sono alternative).

Gli anni Novanta, al di fuori della crisi identitaria delle nuove leve, sono stati anni di grandi sviluppi socioeconomici che sembravano potessero durare per sempre, contrapposto ai disagi che si volevano nascondere sotto al tappeto delle nuove abitudini delle ristrutturazioni aziendali, dei licenziamenti di massa, della prima guerra del Golfo in Iraq del 1991, e della Bolla speculativa delle Dot-com nel 1995. Tutto ciò, pur trattandosi di fatti di cronaca noti all’epoca come adesso non era inserito nel mirino dell’attenzione pubblica americana e internazionale, puntato invece alla rinnovata immagine della democrazia liberale occidentali dopo il crollo del muro di Berlino del 1989, che voleva vedere gli USA vincitori della Guerra Fredda, divenendo, come dopo la Seconda Guerra Mondiale, la società da cui dipende lo sviluppo socioeconomico globale.

La stessa America che in venti anni aveva generato i movimenti hippy californiani nella West Coast ora genera gli yuppies di Wall Street nella East Coast. Se prima l’emancipazione era una strada da intraprendere con il rifiuto delle convenzioni ora sono proprio queste il nuovo mezzo per la realizzazione individuale. I sogni della generazione X diventano singolari e il lavoro il mezzo attraverso cui raggiungerli. 

Allo stato attuale in cui ci troviamo ora, le cose sono cambiate molto. La crisi economica del 2008, il riscaldamento globale, la pandemia, le guerre in corso, hanno cambiato radicalmente il contesto in cui la generazione attuale, denominata “Zoomer” o più semplicemente “Z” crescono in un’era di circostanze incontrollabili come mai prima d’ora. Le nuove generazioni non hanno il beneficio dell’illusione. Per Millennials e Zoomer il futuro non sembra essere una strada da percorrere con sicurezza, assomigliando più ad un buco nero piuttosto che un sentiero illuminato. Nemmeno il lavoro ora sembra essere strumento di emancipazione. La vita costa di più, e il lavoro rende di meno. Le nuove generazioni crescono alla fine dell’ultimo capitolo conclusivo della storia. Ma proprio per questo in grado, forse, di decidere come creare la prossima.

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Last modified: Aprile 30, 2024
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